Disinnescare il nichilismo

Mi è sempre più chiaro che il mio compito è quello di disinnescare il nichilismo, un parolone per dire che nulla ha senso, e non lo ha perchè è svanita la stessa idea di un senso. “Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati”, si legge in Sapienza 2. Se questa è la verità sull’intera realtà e su ciascuno di noi, è vano e forzato cercare un senso, un motivo, un fine alla nostra apparizione. Con l’eliminazione di un Dio creatore si vaporizza la possibilità di reperire uno scopo al divenire. Le forme cangianti non mirano a niente, non vogliono dimostrare nulla, non hanno aspirazioni né progetti. Che ci sia l’umanità o che scompaia all’improvviso oggi pomeriggio, non ha importanza. Le stelle non stanno a guardare, gli atomi sono indifferenti, i gluoni i quark, la luce, il prezzemolo e le ghiande non sono minimamente scosse dal destino nefasto dell’umanità. Tutto scorre indifferente. La natura, che è un concetto umano, è apatica quanto un bambino inappetente davanti a un piatto di spaghetti scotti. Tutte le parole coniate per nominare valori, ideali e sentimenti sono emoticon antropoietici, inventati da noi, senza un vero referente. Ci sembrava bello il mondo, credevamo che ci fosse un giusto e uno sbagliato, ci commuovevamo davanti al panta rei dei nostri cari, ma era tutto uno show da circo, una sfilata mascherata, un trucco truffone. Se un Dio creatore non esiste fate quel che vi pare. Una scena vale l’altra. Una scelta vale l’altra. Fotografie nel cassetto, lettere nel cofanetto, oggetti sul comò… polvere su tutto, dimenticanza, oblio, sonno eterno. Mi spiace, Babbo Natale non esiste. Facciamo gli sboroni davanti ai bambini – quegli ingenui – che ancora credono a favole della buonanotte, ma poi anche noi ci fabbrichiamo paroloni acchiappallocchi, favole del buongiorno per tirare a campare. Anche noi abbiamo i nostri babbi natale a cui aggrapparci. Quanto sono ridicoli gli altezzosi denigratori aggrappati alla loro copertina di illusioni.

Il nichilismo ci mette col culo per terra. Come in Duel, il primo film di Spielberg, in cui un tranquillo commesso viaggiatore che attraversa le assolate strade del deserto californiano viene minacciato da un misterioso camionista. La lunga sfida si conclude con la vittoria del viaggiatore che contempla seduto per terra il mostro ferrato finito in un burrone. È l’uomo che esce dai suoi schemi e ripari tecnologici e ritrova se stesso per ricominciare dalla terra, dal suo essere Adamo, cioè uomo di terra rossa. Il nichilismo è la minaccia dei nostri tempi, è la trappola preparata dall’ateismo di massa. L’ateismo toglie il Creatore ma non va fino in fondo. È ancora dentro cabine, case, teche, auto protettive. Artefatti consolatori. Nel film di Spielberg il viaggiatore si ferma in un desolato distributore e in una cabina telefonica chiama a casa. Il cortile sabbioso è pieno di teche con serpenti e ragni velenosi. Arriva il camion che distrugge la cabina telefonica e le teche e l’uomo, che appena in tempo riesce a salvarsi dall’assalto, si trova in mezzo all’orrore liberato. Le parole d’ordine, le maiuscole che ci sovrastano nonostante la morte di Dio, sono frantumate dalla ragione onesta e interrogatrice. La ragione presuntuosa che ha eliminato Dio ora si rivolge contro l’uomo e fa domande su domande, interroga, disincanta, disillude, critica, disfa i feticci umani, svela il nulla dietro le parolone e le maiuscole, demistifica i miti ai quali come zattere ci afferriamo. La ragione non scherza, cerca il vero, e lo trova, eccome. Dopo l’ateismo, sulla stessa strada tracciata dalla nefasta negazione (tanto nefasta quanto inconsapevole delle conseguenze), si scorge il nichilismo, l’approdo finale della rasatura razionalista. Il nulla: benvenuti a casa.

Mi rendo sempre più conto che il Signore mi fa frequentare quell’approdo per cercare di disinnescarlo da dentro. La mia fede in Dio è un lumicino, non è un faro proiettato sulla notte. A essere onesto il mio assenso è una lotta, un duello permanente con la negazione e il suo effetto reale, radicale. Mi chiedo sempre più spesso a cosa possa servire questa flebile ma tenace fiammella. A cosa possa servire questo mio passaggio in questo spicchio di tempo. Tanti i grandi, e io? A che è valsa la mia apparizione? Non in guerra, non in martirio, non in disperate carestie o, per ora, situazioni tragiche. Una vita tutto sommato fortunata, eppure… una battaglia più profonda devo combattere. La battaglia dell’assenso, libero e consapevole. Una battaglia da dentro. La mia ricerca di Dio è permanente, cocciuta. Potevo fare altri lavori, fare soldi, viaggiare, distrarmi. E invece ho insistito per un lavoro piuttosto modesto ma per me vero, corrispondente a me. La vita se ne va, l’arrivo si avvicina e mi chiedo per cosa ho lottato, a cosa vale una vita così. Immensi rivolgimenti, tempi abissali di trasformazione, il cosmo rotola fino ad arrivare a far emergere questa specie pensante e desiderante, e lì dentro, dopo tante ammucchiate di forme, tocca a me, proprio a me. A che serve un così immenso lavoro? Ho ripagato con la mia vita tutta quella preparazione? Tutto quel viaggio? Sono stato all’altezza? Mi sento di dire di no. È troppo grade la sproporzione tra il miracolo di esserci, di essere apparso, e la poca cosa che ho realizzato. Sì due figli, si una moglie, un buon lavoro, qualche pensiero scritto, qualche bella foto… e poi? Cos’ho da offrirti Signore per il gran regalo di esserci, di essere nato? Cosa posso mettere sull’altro piatto della bilancia? Che pochezza. Nemmeno santo sono. Ti ho deluso? Molti giorni sento il fallimento. Sono ingrato? Forse il mio posto è questo. Sperimentare il nulla e cercare di vincerlo da dentro. Forse questa è la mia battaglia.

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